Prima Edizione Premio Nazionale di Filosofia

Alla Ricerca dell’Anima

di Massimo Franceschini

(a cura degli Amici di L. Ron Hubbard)

Tema del concorso: La Felicità cosa crea?

Bellissima domanda su cui riflettere, anche perché rivolta la prospettiva: normalmente ci interroghiamo su cosa crei la felicità, come raggiungere quella che spesso appare una chimera.

Se sviluppiamo una visione cinica della vita potremmo considerarla irraggiungibile, impossibile, quasi un assoluto pertinente ad altre dimensioni e così degradarla a mera soddisfazione edonistico-possessiva.

Certamente la vera felicità non è quel picco emotivo che abbiamo da una buona notizia, da un dono, da un bel gesto o dalla soddisfazione di un piacere fisico. Sono queste condizioni passeggere, che possono certo determinare una disposizione positiva verso gli altri e la vita, ma spesso di breve durata. Ci si stanca presto del nuovo regalo, i bei gesti si possono dimenticare, la soddisfazione di alcuni piaceri può contenere un amaro retrogusto e causare un meccanismo di “tolleranza”: la “dose” dovrà essere sempre più forte o frequente, proprio come con la droga. Così, d’un tratto, la vita può perdere quella effimera magia che al momento sembrava così grande.

Non è quindi verso la dimensione piacere-possesso che dobbiamo rivolgerci per trovare la felicità e scoprire cosa essa può creare.

Dove allora?

Dato che ci stiamo interrogando su una condizione di natura intellettuale credo sia doveroso, prima di iniziare qualsiasi riflessione, mettere l’attenzione sul pericolo presente nell’odierna deriva culturale sempre più biologico-materialista. Secondo questa visione saremmo letteralmente in balia di ciò che accade nella nostra testa, in senso letterale!

Il cervello sembra ormai l’orizzonte speculativo preminente, l’ultimo ambito in cui poter definire l’uomo dopo la triste “resa” della filosofia alle neuroscienze. Troviamo sempre con maggior frequenza articoli, pubblicazioni, prodotti artistici e slogan mediatici che descrivono “amabilmente” le attività umane e gli stati d’animo come prodotti della biochimica cerebrale. L’ultimo esempio di ciò è il clamoroso film Inside out, un successo planetario definito in linea con le ultime acquisizioni delle neuroscienze che ha fatto esprimere anche autorevoli firme: il personaggio principale è infatti una ragazzina senza apparente personalità e libero arbitrio, in balia delle sue emozioni che ne hanno il totale controllo.

L’uomo così descritto non sembra più un ente in grado di scelta e di etica ma un prodotto di tante influenze, cui deve inevitabilmente adattarsi. La resa di cui parlavo si evidenzia considerando quanto rare siano le repliche di esponenti del mondo filosofico e umanistico, sempre più appiattito su un automatico scientismo.

Date queste premesse credo sia impossibile parlare della felicità senza prima espletare quella che potrebbe sembrare quasi una formalità: cos’è una condizione dell’essere, uno stato d’animo o un’emozione? Vista la tendenza culturale cui accennavo, la questione sulla nostra natura interiore è ovviamente centrale.

La maggior parte delle persone sembra avere una duplice visione della nostra identità: è consueto sentir dire che siamo anima e corpo, istinto e ragione, cuore e cervello, come se in noi esistessero ambiti separati al punto di rendere difficile un equilibrio, una linea d’azione e pensiero coerente.

Di pari passo, gran parte del mondo culturale è orientato verso una visione apparentemente “olistica”, anche dietro la moda delle suggestioni relative alla fisica quantistica. Il rischio è non distinguere più l’essere dall’avere, generando così un effetto confondente: se in fondo sono la stessa cosa delle mie cellule e se queste sono collegate ad un “tutto”, in un continuum di scambi di informazioni ed energie, si crederà di trovare la soluzione agli enigmi dell’esistenza nelle trame dell’universo materiale. Si parla tanto di “equilibrio” che però sa tanto di nullificazione dell’essere ed insolubile confusione fra fattori, appunto fra essere e avere. Se “tutto è energia”, come spesso sentiamo dire, in ultima analisi è materia, lasciando però senza speranza di risposta gli antichi quesiti sulle cause ultime del creato, sulla natura del nostro essere e sull’origine dell’esistenza.

Mente, cervello, coscienza, identità, emozioni, essere, vita, sono parole che stanno perdendo il loro valore discernente, anche a causa di alcuni “guru” delle neuroscienze che pretendono, di fatto, degradare la speculazione filosofica all’ambito neuronale. Un riduzionismo che, a mio parere, è proprio il contrario della conoscenza cui la filosofia aspira da sempre.

Veniamo ora a quanto accennavo circa la particolare prospettiva del quesito in questione.

Occorre certo un preciso atto di volontà o una predisposizione dell’animo per ricercare la felicità e sperimentare cosa ne possa derivare, dato che è essa dimensione personale, intima, e non può esserci regalata, anche se può essere velata, negata, impedita.

La felicità può essere ostacolata dalle determinazioni negative di particolari ambienti, da svariate congiunture sfavorevoli, dalla presenza nel nostro vissuto di influenze disturbanti e devianti. Se viviamo o lavoriamo a stretto contatto con personalità autoritarie o infide, oppure se non riusciamo ad affermare la nostra identità senza confliggere con gli altri, se frequentiamo una scuola interessata più ai programmi che agli studenti, se ci troviamo in un mondo del lavoro che non ricambia i nostri sforzi con il giusto per vivere, se non coltiviamo il nostro pensiero e la nostra anima, se non abbiamo obiettivi a lungo termine, se nei momenti di difficoltà non riusciamo più ad avere forza ma la ricerchiamo al di fuori del nostro intelletto, se non abbiamo qualcuno che ci aiuti veramente senza drogarci o medicalizzarci, la parola felicità può diventare incomprensibile, inaudita, addirittura fastidiosa, quasi una bestemmia. Occorre molta forza e consapevolezza per esser felici nelle avversità.

Un fattore di ostacolo alla felicità, mai abbastanza sottolineato o compreso, lo hanno i media, veri e propri strumenti di consenso/dissenso, accettazione/repulsione, risposte/incertezze, che formano la cultura popolare moderna. Se ci facciamo caso vediamo che sono quotidianamente impegnati a raccontarci quanto il mondo sia brutto e pericoloso, quanto sia opportuno non fidarsi completamente del prossimo, quanto dovremmo “stare attenti” alla nostra sicurezza, al nostro equilibrio psicofisico. Creano una cultura non analitica, in grado di fagocitare e manipolare il bello e il brutto dell’esistenza per restituirlo sotto forma di idee e comportamenti predeterminati, scodellati con un qualche senso di “appartenenza” a qualcosa di più grande, che però in effetti è moda, convenzione, illusione. Ci irretiscono nella spirale di una becera informazione spettacolo e nel gossip.

Sottoposti a queste pressioni diventiamo “adulti” acquisendo una forma mentis apparentemente pragmatica, “utilitaristica”, e perdiamo progressivamente la dimensione creativa. Smettiamo di sognare e non abbiamo più l’interesse di un bambino che sapeva benissimo come essere felice, senza averlo studiato. Inoltre, la tanto agognata autostima degenera spesso in automatica giustificazione per qualsiasi comportamento. Abbiamo una gran confusione ma ben mascherata da “cultura” ed “esperienza”, la vita ci scorre fra le mani mentre speriamo segretamente che qualcosa accada, una qualsiasi cosa che ci faccia sentire vivi.

Quindi è il bambino, certo, proprio lui è la chiave, il paradigma.

E’ dal bambino che dobbiamo partire per capire la felicità e le sue conseguenze, i suoi “prodotti”.

Parlo di un bambino cresciuto fino al punto di potersi esprimere coerentemente, in grado di conoscere, riconoscere, che abbia già dimostrato abilità pratiche e attitudini sue particolari, con una sufficiente autodeterminazione da poter essere lasciato solo con la sua fantasia ed il suo intelletto.

Purtroppo oggi “cresciamo” così in fretta negli usi, costumi e convenzioni, per entrare a far parte della “massa silenziosa dalla vita predeterminata”. Anche se può non sembrare le differenze individuali non vanno di moda e spesso ci formiamo opinioni basate su osservazioni fatte da altri, dopo essere passati per un’istruzione che non sa più come formare una mente libera, critica e creativa. A volte parliamo per slogan, per frasi fatte apprese dalla tv, persino dai nuovi social media che, se usati senza discernimento e attenzione, contribuiscono a veicolare il devastante appiattimento culturale di quest’epoca. L’adolescente è ovviamente la prima vittima di questo sistema, vuole e “deve” sentirsi già grande, e il modo per farlo più in fretta possibile è copiare, proprio come a scuola, è emulare per inserirsi, possibilmente con un’apparenza di essere sicuro di sé.

Rimane il bambino, dunque, a mostrarci meglio cosa crea la felicità, che ovviamente non è solo questione giovanile: è nei giovani però che abbiamo una migliore visibilità di alcuni fattori che possono sembrare confusi e meno evidenti negli adulti, ai quali è apparentemente richiesta una “solida” ma fredda “maturità”.

Se osserviamo con attenzione un bimbo “sano”, che si trovi in una condizione di vita decente in cui non sia sottoposto a qualche tipo di stress troppo forte da sopportare, vedremo che sarà continuamente assorto in qualcosa da fare, realizzare, raggiungere, da solo o con altri. Anche i sogni ad occhi aperti avranno come soggetto questo qualcosa, che gli cattura la quasi totale attenzione. Magari l’oggetto di questo “interesse” può mutare nel tempo o rimanere tale per tutta una vita, non è questo il punto. Il bambino ci mostra cosa accade negli spazi in cui può permettersi una certa dose di libertà, mentre ha una pausa dagli impegni determinati da altri. Certamente alcuni doveri possono comunque rientrare, se non in conflitto con la personalità e se non imposti d’autorità al di sopra della soglia di comprensione, nella sua sfera di interesse creativo. Oltre a ciò, vediamo che questa dimensione favorita è anche un rifugio nei momenti di sconforto, quasi un’auto terapia che noi grandi spesso dimentichiamo.

E’ quindi il bambino che, appena può, sembra essere subito in grado di avere a disposizione tutta l’attenzione e l’energia di cui è capace verso ciò che gli interessa veramente. In quei momenti possiamo osservare quella condizione in cui è felice di essere-fare-pensare e agire con un interesse che lo assorbe come fosse una fonte cui dissetarsi. E’ questa la dimensione che meglio ci mostra cosa succede ad esser felici.

Non sempre noi adulti siamo così “solerti” e determinati nel dedicarci ai nostri veri interessi, ammesso di possederli o ricordarli ancora. I problemi della vita, le nostre insufficienze e sventure sembrano aver risucchiato l’energia che avevamo da piccoli, diventiamo più pesanti, anche nel muovere il corpo. Dovremmo tutti fare una riflessione sulle abilità perdute con la crescita. Ne abbiamo certo acquisite altre, ma l’apparente scomparsa di quella particolare energica abilità di concentrazione-attenzione-interesse-azione-spinta creativa, insieme alla perdita della capacità di sognare, sono effettive dimenticanze di una “porzione” importante del nostro essere.

Insomma, da giovani siamo generalmente più capaci di esser felici in modo naturale, crescendo dobbiamo aggiungere spesso un certo sforzo. Quando ci riusciamo la felicità può certamente essere espressa al massimo livello perché possiamo coniugare vitalità e creatività con maturità, consapevolezza ed esperienza. Questa riflessione ci fa comprendere quanto siano fortunate le persone che lavorano quotidianamente con la materia stessa dei loro interessi, dei loro sogni.

La ragione per cui sia possibile chiamare felicità questa condizione è dovuta, oltre ai motivi con cui ho escluso quelli che ho chiamato “picchi emotivi”, proprio dal fatto che questa dimensione sembra essere quella in cui ci troviamo più a nostro agio, in cui siamo più “dentro” e in cui riusciamo ad esprimere le nostre virtù. Questa dimensione ci assorbe l’attenzione e favorisce la crescita delle nostre abilità che sappiamo, proprio perché eletta da noi, di poter esprimere con una possibilità ragionevole di riuscita. Dal che se ne deduce che la felicità è anche la considerazione che questa attività creativa, avrà un processo che porterà alla realizzazione di qualcosa di auspicato. Ovviamente non sto affermando che le attività che ci rendono felici siano senza ostacoli o barriere, se così fosse il raggiungimento dell’obiettivo non avrebbe niente di rilevante e non ci spingerebbe oltre; sarebbe forse un passatempo dal coinvolgimento assai più blando, l’esatto contrario dei picchi emotivi di cui parlavo in precedenza. L’attività che ci rende felici, ha certo ostacoli e barriere che siamo però in grado di conoscere ed affrontare, proprio perché in profonda “sintonia” e “familiarità” con il nostro essere.

Altra importante caratteristica che ci fa capire la differenza fra la vera felicità e altre tipologie di gratificazione, è il fatto che il nostro interesse sembra non esaurirsi al raggiungimento di un obiettivo, alla costruzione di qualcosa. Al contrario, ogni conseguimento ci spinge a cercare ancora, ad andare avanti, ad investire continuamente tempo ed energie. Un concetto sintetizzato egregiamente da Enzo Ferrari, tanto per rimanere in Italia e parlare di vita vissuta, in risposta ad una domanda su quale fosse stata l’auto migliore da lui costruita. La risposta fu: “La prossima”.

Ciò che ho esposto finora include certamente l’ambito dei rapporti personali, familiari e l’amore.

Le relazioni si dovrebbero costruire, mantenere, aggiustare e alimentare continuamente; se desiderate e feconde mostrano chiaramente cosa possa scaturire dalla felicità, amplificata dal loro continuo consolidamento.

La felicità espressa al massimo grado può anche andare oltre e investire la dimensione globale relativa all’umanità e all’ecosistema, come da sempre auspicato nelle aspirazioni più elevate dell’uomo.

Ecco allora che la felicità si mostra in tutta la sua bellezza, nelle sue sfumature, negli esiti.

La felicità è pertanto quella dimensione interiore che si ottiene e si mantiene investendo le nostre energie verso la creazione di un qualcosa che è in linea con il nostro essere.

E’ dimensione creativa, in tutti i sensi.

Crea tutte le creazioni possibili da immaginare.

La felicità crea anche sé stessa, in quanto si autoalimenta.

La felicità crea un essere migliore perché più “realizzato”, più consapevole di sé e delle sue abilità, quindi più libero.

La felicità crea una cultura e una società più a misura d’uomo, di ogni uomo, effettivamente più libera.

La felicità crea, in ultima analisi, abilità e libertà.

3 novembre 2015

la mia analisi su Inside Out

fonte immagine: youtube.com

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